Dall’inizio dell’anno in Italia si contano 57 casi di femminicidi. Gli ultimi dati Istat confermano che la violenza di genere è un fenomeno diffuso e trasversale, che interessa donne di ogni età e classe sociale. Come ci ricorda la cronaca di questi giorni, troppo spesso i centri antiviolenza si trovano a non poter garantire la continuità dei propri interventi, perché ancora in attesa dei finanziamenti statali del 2013-2014 e sostenuti quindi soprattutto dai volontari.
Oggi, secondo il Dipartimento per le pari opportunità tra Centri antiviolenza, sportelli e case rifugio in Italia si arriva intorno alle 450 strutture. Ma una rilevazione sistematica dei diversi tipi di servizi ancora manca. Secondo un calcolo dell’Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un posto letto per vittime di violenza ogni 10 mila abitanti. In Italia ce ne sono meno un migliaio.
In queste strutture, sempre sull’orlo dello sfratto, le operatrici offrono supporto legale e psicologico durante la denuncia, rispondono al telefono 24 ore su 24 per i casi di emergenza, collaborano con le forze dell’ordine e i servizi sociali, organizzano attività di promozione culturale. E tramite le case rifugio danno anche ospitalità alle donne in pericolo che non possono tornare a casa dai compagni violenti. Purtroppo a queste strutture non è mai stato riconosciuto il ruolo che meritano. Basti pensare che, sempre secondo l’Istat, il 12,8% delle donne che subiscono violenza non sapeva nemmeno della loro esistenza.
A Roma, a poche ore dal femminicidio di Sara Di Pietrantonio, a lanciare l’allarme è stato il Centro comunale antiviolenza Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, attivo dal 1997 a sostegno delle donne vittime di violenza e maltrattamenti. Da qui sono passate quasi 9 mila donne, di cui trecento hanno trovato ospitalità insieme ai figli. Ma ora il centro è a rischio chiusura: lo scorso 13 maggio è arrivato l’avviso di sgombero. “Sulla base delle informazioni ricevute”, racconta Oria Gargano presidente della cooperativa BeFree, che gestisce il servizio, “abbiamo appreso che l’edificio intero non è di competenza comunale, ma di proprietà della Regione Lazio”, che ora reclama somme importanti per i vent’anni di occupazione dei locali. Somme che il Comune non può sostenere. Se entro il 30 luglio non si troverà una soluzione, l’unica soluzione prospettata è quella della chiusura della struttura. E oltre allo storico centro, rischiano di estinguersi anche gli altri servizi antiviolenza della Capitale. In assenza di fondi regionali e comunali, il sostegno alle donne vittime di violenza si fa “a progetto”. E nella maggior parte dei casi è lasciato tutto sulle spalle delle volontarie.
Sullo sfondo, il tanto declamato Piano nazionale contro la violenza sulle donne è fermo in chissà quale cassetto di chissà quale palazzo romano. Approvato dal consiglio dei ministri, l’8 marzo in Gazzetta ufficiale è stato pubblicato un avviso pubblico della presidenza del Consiglio che prevede lo stanziamento di 12 milioni di euro per i progetti di sostegno alle donne vittime di violenza. Ma nessuno degli addetti ai lavori ha saputo più nulla. Fino al 10 maggio scorso il governo non aveva neppure un rappresentante delle questioni di genere. Ma dopo l’omicidio di Sara Di Pietrantonio Maria Elena Boschi ha dichiarato che il governo avrebbe istituito “la commissione che dovrà valutare i progetti di attuazione del piano antiviolenza”.
Fonte: www.linkiesta.it
Di Benedetta Carulli