Questo flusso è stato accompagnato negli ultimi quindici anni ad un aumento della mortalità: da 10 morti ogni 1.000 persone fino ad superare i 30 morti ogni 1.000 migranti, facendo della rotta marittima verso l’Europa la più pericolosa al mondo.
I migranti che riescono a raggiungere le sponde europee non finiscono il proprio viaggio, bensì vengono spostati da un centro ad un altro per diverso tempo, o addirittura rimandati nel proprio paese da cui erano riusciti a scappare.
Già, la maggior parte dei migranti scappa dai propri paesi di origine in cui sono presenti governi repressivi come nell’africa subsaharina o dell’asia: Eritrea, Nigeria, Somalia, Siria, Afganistan (dove siamo in missione di pace), Ghana, etc..
Quindi il profilo medio di un immigrato clandestino, africano o asiatico che sia, corrisponde a qualcuno che rischia la vita nel proprio paese, rischia la vita scappando, lascia la propria famiglia nel paese di origine, e quando giunge a destinazione vive in povertà economica ed intellettuale. Una simile situazione non solo rappresenta un problema “politico” ma anche di salute, infatti condizioni di vita così stressanti possono generare la più grande varietà di patologie fisiche e psicologiche, trasformando la disperazione in malattia e aggravando una situazione già difficile.
All’interno dell’enorme cambiamento culturale e legislativo che serve al nostro paese per poter far fronte ad una tale emergenza, andrebbe inserito un aiuto psicologico per i migranti che gli permetta di ammortizzare la fatica psichica causata da così tanti cambiamenti radicali.
Da anni il direttore dell’Università di Parigi, Tobie Nathan, ha aperto un il centro “George Devereux” per l’aiuto delle famiglie immigrate. Si tratta di un approccio psichiatrico – psicologico condotto con l’aiuto di un traduttore madrelingua per il paziente immigrato che lo aiuti nell’espressione e comprensione durante il colloquio.
Forse è troppo per noi sviluppare un intervento di questo tipo, basterebbe ammettere che la globalizzazione è anche psichica e riconoscere la disperazione del migrante.
di Andrea Poliseno