Le mire italiane in Africa iniziarono sul finire del XIX secolo, con la sinistra storia di Depretis e Crispi. Nel 1890 veniva stabilita la prima colonia italiana in Eritrea, sul porto di Massaua, e venivano conclusi i trattati con il Negus Menelik. Trattati che vennero interpretati dagli italiani come un’autorizzazione a stabilire un protettorato e a dare l’avvio a un’occupazione militare nella zona del Corno d’Africa. Questi tentativi finirono nella disfatta militare di Adua del 1896, nella quale caddero 7000 uomini, e la successiva pace di Addis Abeba. Nel 1911-12 il Governo Giolitti, invece, approfittando della guerra mossa contro l’impero ottomano, riuscì ad occupare le zone della Tripolitania e della Cirenaica, che avrebbero dato luogo alla formazione della Libia Italiana, consolidata però solo negli anni ’20.
Con l’avvento del regime fascista, iniziò la vera e propria fase imperialista italiana. Nel 1928, Mussolini stringeva degli accordi di amicizia con Heile Selassie, re d’Etiopia. Nel 1936, l’esercito italiano penetrava nell’unico territorio dell’area ancora libero da ingerenze straniere, l’Abissinia. Pochi giorni dopo Vittorio Emanuele III veniva proclamato Imperatore d’Etiopia. La violenta conquista dei territori era stata ottenuta tramite l’utilizzo di armi di uccisione di massa che erano, peraltro, vietate, quali i gas asfissianti. Le politiche fasciste di sottomissione dei territori consistevano in pacificazioni forzate e politiche per favorire l’immigrazione di coloni italiani. Nel 1940, il 75 per cento del territorio abissino era controllato da italiani. Era la fase più matura dell’imperialismo italiano, nella quale le colonie assunsero il nome di Africa Orientale Italiana (Libia, Eritrea, Somalia Italiana).
Il dominio italiano in Africa terminò nel 1941 a seguito della penetrazione inglese nel territorio. Con gli esiti della seconda guerra mondiale, l’Italia perse tutte le sue colonie. Nel 1950 le Nazioni Unite riconobbero all’Italia l’amministrazione fiduciaria nei confronti della Somalia.
Alla luce di questo breve richiamo sulla storia italiana, appare ancora più evidente come l’esistenza di un museo come quello Africano di Roma possa costituire un luogo per non dimenticare che anche la nostra nazione si è resa colpevole dei crimini imperialistici. riflettere su una parte della nostra storia nazionale che è stata l’avventura coloniale. Inoltre, la possibilità di vedere con i propri occhi manufatti, fotografie e dipinti provenienti da luoghi considerati remoti nell’immaginario collettivo, potrebbe costituire un importante spunto di riflessione e di interesse per tutti i cittadini.
Il Museo, invece, dopo la sua apertura, per far “conoscere la produzione annuale delle nostre colonie e della Tripolitania, della Cirenaica, dell’Eritrea e della Somalia”, subì dapprima uno spostamento nella sede attuale nel 1935. Fui poi chiuso e riaperto nel periodo 1943-1947 e nel 1995 fu affidato all’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). Nel 2011 il polo museale “Luigi Pigorini” ne acquisiva le collezioni. Facevano parte del Museo una biblioteca, annessa a quella dell’Istituto, una sezione fotografica, una raccolta di dipinti etiopici, una raccolta di sculture in legno, una raccolta di dipinti, disegni, incisioni e sculture di artisti italiani operanti nell’ex colonia. Di quest’ultima raccolta la Soprintendenza Speciale dell’Arte Contemporanea ha effettuato un primo intervento di riproduzione fotografica e di catalogazione comprendente circa 350 dipinti, 400 incisioni, acquerelli e stampe, 50 sculture.
Come scrive Francesca Gandolfo, “ci sono musei che diventano vittime della storia, della sfortuna e di un infausto destino che, per ironia della sorte e in virtù delle contingenze storiche, vengono cancellati dalla memoria collettiva con tutto il loro bagaglio di personaggi e cimeli. Uno di questi è il Museo Coloniale di Roma. Esso non esiste più fisicamente, non ha più sale nelle quali esporre gli oggetti e accogliere i visitatori, non ha più custodi e funzionari che si prendono cura delle sue collezioni, non ha più un direttore”.
L’insieme dei reperti, di vitale importanza per chi si occupa di storia e antropologia, è di proprietà dello Stato e la sua tutela ed amministrazione è affidata al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Eppure il silenzio è calato sulla storia e sull’importanza del Museo: “forse può essere utile approfittare di questo contingente silenzio per non chiudere in maniera definitiva la porta alle spalle a ciò che non reca soltanto le tracce fisiche del nostro passato coloniale, ma che ne simboleggia la coscienza ancora da scavare”.
di Giada Giacomini
Fonti: Francesca Ganolfo, Il Museo Coloniale di Roma, fra le zebre nel paese dell’olio di ricino, Gangemi Editore.
G. Sabatucci, V. Vidotto, Storia contemporanea, il Novecento, La Terza.